"chi fa da sé fa per 3"

Questo blog è nato come un blog di controinformazione dopo il sisma del 6 aprile 2009. Ora che i riflettori su L'Aquila si sono spenti e l'unico terremoto che investe la città è quello della crisi generata da questo sistema capitalistico che deve essere rovesciato, esso rimane in vita per dare voce ai senza voce, a coloro che, pur vivendo e lottando in questa città, non trovano spazio nei media, anche se si definiscono "liberi e indipendenti"

martedì 19 maggio 2009

Solidarietà

AL FIANCO DELLA POPOLAZIONE TERREMOTATA, CONTRO IL G8
PARTECIPIAMO IN TANTE E INSIEME ALLA MANIFESTAZIONE DEL 10 LUGLIO

Domenica
14 giugno a L'Aquila... Sembra di entrare in una zona di guerra perché subito la città appare ipercontrollata. La presenza dei militari fa impressione al pari delle distruzioni e dei crolli. Ci sono militari di ogni genere e tipo, dagli alpini, alla Guardia di finanza, all'esercito, ai poliziotti, ecc. Tanti posti di blocco/presidi ad incroci di strade, che non hanno una loro giustificazione. Gli unici che lavorano sono i vigili del fuoco. Gli altri, anche per il fatto che non fanno niente, se non imporre la loro inaccettabile presenza asfissiante, esagerata, non si capisce perchè stanno lì per ore a presidiare i campi, le strade, se non per il fatto stesso di mostrare una presenza dello Stato solo militare/repressiva, di mostrare il potere dello Stato sulla gente. A fronte del dramma della gente lo Stato deve imporre il suo "Ordine". Un giovane con cui abbiamo parlato, diceva come ci si sente controllati/spiati anche quando stai parlando, come se già il fatto di parlare in più persone diventa di per sé sospetto. In tutta la zona interessata dal terremoto, ci sono attualmente almeno 170 campi "ufficiali". Poi ce ne sono tanti altri mini che sono sorti spontaneamente vicino alla proprie abitazioni crollate o danneggiate. Chiaramente non tutti i campi sono uguali. Per esempio: L'Italtel è il terzo campo per grandezza, ma anche uno dei peggiori. Qui si sono verificati gli episodi della carne avariata e del tizio che andava tranquillamente in giro con la svastica. Il campo di S. Stefano raccoglie prevalentemente gente della piccola/ media borghesia; A Coppito c'è un campo gestito dalla Cgil e qui vi è più libertà e un clima più tranquillo e aperto. Qui abbiamo mangiato alla mensa del campo senza problemi, anzi uno dei giovani che stava all'ingresso del campo ci ha invitato a restare a mangiare; in altri campi non si può entrare o uscire senza tessera; A Poggio Picenze è invece gestito dai fascisti di Casa Pound. Ecc. Per come sono dislocati i campi la gente se non ha la macchina può difficilmente muoversi, potrebbe chiamare un numero verde per far arrivare un bus, ma si dice che è meglio non averne bisogno. Questo chiaramente aumenta il peso della situazione da 'campi di concentramento' che si vive nella maggiorparte dei campi. Per fare qualcosa di diverso, una famiglia, che abbiamo incontrato, si stava facendo un giro in macchina nella zona in cui stanno costruendo le nuove strade per il G8, "per far vedere un pò ai bambini...". L'inchiesta che ha iniziato Luigia (per una rete di soccorso popolare) attraverso il questionario, è partita durante la manifestazione nel centro storico. Vi stanno rispondendo giovani, donne, lavoratori, disoccupati. Finora, in poco tempo e in situazioni non certo tranquille, sono stati riempiti decine di questionari, un risultato molto buono, tenuto conto anche, come è inevitabile, che il questionario non viene riempito semplicemente lasciandolo alle persone, ma compilandolo insieme. Aspetti positivi sono che la maggiorparte di chi lo ha compilato ha lasciato dei riferimenti per essere rintracciabile e ha dichiarato la propria disponibilità ad impegnarsi. Per il G8 vengono già imposte direttive. Per la gente dei campi della "zona rossa" nei tre giorni del vertice sarà impossibile anche andare a lavorare se non dopo controlli in entrata e uscita e le persone dovrebbero andare in giro anche con dei 'braccialetti' identificativi. Ad abitanti di una casa che per sua sventura si trova proprio nella 'zona rossa', non potendo essere "spostata" è stato già detto che o si trasferiscono nei tre giorni o dovranno stare con le finestre chiuse e avere sul proprio tetto fissi due cecchini. Si parla di sicurezza, di abitazioni pericolanti, ma i tanti voli degli aerei che sorvoleranno L'Aquila durante il G8 rischiano con le loro vibrazioni di aumentare ulteriormente i danni di abitazioni. In fretta e furia stanno facendo eseguire i lavori per il G8 di ampliamento dell'aeroporto e di allargamento o costruzione ex novo di strade dall'Aeroporto di Preturo alla Scuola della Guardia di Finanza in Coppito, dove si terrà il vertice, imponendo espropri di terreni agricoli. Si tratta di una violenza del territorio, una violazione inaccettabile per una zona che ha già subito un trasfigurazione della propria struttura. L'aeroporto finora era un piccolo spazio per aerei di piccole dimensioni o elicotteri, ora dovrà, invece, essere forzatamente allargato per l'atterraggio e il decollo di grandi aerei. Le strade erano strade di campagna o di frazione, ora dovranno forzatamente diventare lunghe e grandi strade per il passaggio di mega macchine, blindati, ecc., portando ad uno stravolgimento anche futuro del territorio. I lavori vengono fatti da ditte fuori de L'Aquila e con lavoratori portati anch'essi da fuori (il G8 non sta rappresentando neanche possibilità di ripresa del lavoro per operai forzatamente disoccupati per il terremoto). Le condizioni di lavoro degli operai impegnati nei lavori del G8 sono all'insegna del massimo lavoro nel minor tempo possibile e col minimo costo. Gli operai edili con cui abbiamo parlato, da quando hanno iniziato i lavori di ampliamento stradale non hanno mai fatto un riposo settimanale, fanno ogni giorno 12 o più ore di lavoro, vi lavorano anche degli immigrati (che qui vanno bene, perché vuol dire riduzione dei costi del lavoro). Mentre per la ricostruzione i tempi si allungano giorno dopo giorno, per il G8 i lavori si fanno in poche settimane. E mentre questi lavori vengono assunti direttamente dallo Stato, per la ricostruzione delle case dei terremotati -come si capisce chiaramente dal decreto del governo- lo Stato se ne laverà le mani, privatizzando e parcellizzando la ricostruzione. La linea prevalente sarà infatti l'assegnazione di fondi (pochi e legati fondamentalmente alla speranza di lotterie, bonus) direttamente a chi ha avuto distruzioni dal terremoto per la prima casa, e queste persone dovranno provvedere da sé a trovare la ditta e a fare i lavori. Una linea scellerata e assurda: in questa maniera non c'è un piano organico di ricostruzione; dati i pochi soldi assegnati vi sarà una naturale tendenza a ridurre i costi, con una concorrenza tra le ditte che poi scaricheranno il massimo ribasso sui loro operai; si attuerà una disparità tra chi ha le possibilità economiche di integrare i fondi del governo e chi no. Parlando con un dirigente della Cgil de L'Aquila, è venuto fuori che questa linea non viene realmente contrastata dal sindacato, anzi. A fronte della domanda se il sindacato sta ponendo il problema dell'impiego retribuito degli operai edili attualmente senza lavoro nella ricostruzione, o se piuttosto c'è il rischio che questi lavori passino sulla testa dei lavoratori aquilani, il dirigente della Cgil ha risposto che, grazie al fatto che ogni famiglia potrà chiamarsi direttamente la ditta per fare i lavori nella propria abitazione, questo inevitabilmente favorirà le ditte abruzzesi che occuperanno, a loro volta, operai abruzzesi... Della serie che la speranza di lavoro è legata a quando e se le famiglie potranno ricostruire/riparare le loro abitazioni. Alla fine della giornata di domenica, siamo andati dove vive Carla (a cui è morta la madre e la sorella per il terremoto). Ora Carla vive in una roulotte che sta sul terreno antistante la casa in cui abitava in affitto. Il suo compagno mi ha fatto entrare in questa casa. Al di là di lesioni rilevanti nei muri, erano soprattutto impressionante i soffitti delle stanze. Era come se fossero stati tagliati di netto per tutto il loro perimetro e come se fossero solo appoggiati sulle pareti (come dei coperchi)! All'interno era stato lasciato tutto come quella notte del 6 aprile, in cui erano scappati dalle finestre: mobili spostati, caduti, tutti gli oggetti per terra, rotti. Tra questi... un orologio in cui cadendo ? saltata la pila e che segna esattamente le 3,32...

Margherita MFPR Taranto

domenica 17 maggio 2009

OLTRE LA CASA NON POSSIAMO PERDERE IL LAVORO...

OLTRE LA CASA NON POSSIAMO PERDERE IL LAVORO...

Mandiamo solidarietà alle lavoratrici e lavoratori call center della Transcom di Pettino – L'Aquila in lotta contro i licenziamenti.

“...oltre alla casa non possiamo perdere anche il lavoro”. Questo hanno gridato alcune lavoratrici nella manifestazione contro i licenziamenti che la loro azienda la Transcom ha annunciato.

Come i padroni stanno approfittando della crisi, ora stanno approfittando anche del terremoto.
La Transcom, una delle più importanti aziende dell'aquilano, vuole chiudere i battenti e andare via, licenziando 276 lavoratori e trasferendo 77 a Bari, Lecce, Roma, Cernusco sul Naviglio.

All'annuncio della scorsa settimana più di 200 le lavoratrici e i lavoratori si sono riuniti avvisandosi tra di loro con sms, e dopo un'accesissima assemblea si sono avviati in corteo non autorizzato proprio in quella zona, Coppito, che tra qualche giorno diventerà “zona rossa” per il G8 (dicendo: “Ma quale G8! Non mi danno da mangiare né Obama bè Berlusconi: io devo passare per difendere il posto di lavoro”), hanno paralizzato il traffico, sfidato i blocchi dei baschi verdi della Guardia di Finanza in tenuta antisommossa.

Ma perchè questi licenziamenti? Domenica 14 giugno noi siamo state a L'Aquila, abbiamo visto e parlato con la gente del posto e abbiamo saputo che lo stabilimento della Transcom non ha subito affatto grossi danni tanto che ora potrebbe riaprire e l'azienda non ha perso le commesse. La Transcom, in realtà, sembra cogliere a volo l'occasione del terremoto unicamente per tagliare i costi del lavoro. Aumentare i suoi profitti, mentre i lavoratori devono perdere tutto, andare a gonfiare il numero dei lavoratori “assistiti” (per fare se mai anche da “vetrina pietosa” di Berlusconi verso potenti del G8), o, i pochi, lasciare la loro terra – così più del terremoto potè la Transcom!

Mercoledì 17 giugno c'è l'incontro tra azienda e sindacati e noi auguriamo alle lavoratrici e ai lavoratori che la loro battaglia si concluda subito con la ripresa per tutti del lavoro a L'Aquila. Ma, già nei giorni scorsi i lavoratori hanno contestato alcuni dirigenti sindacali, più impegnati anch'essi nella campagna elettorale (in cui la stragrande maggioranza della popolazione non ha votato per protesta) che nella difesa del lavoro.

Facciamo arrivare a queste lavoratrici, lavoratori il nostro appoggio, dalle altre città e posti di lavoro, dai lavoratori di altri call center, facciamo conoscere la loro lotta.

Chiunque volesse mandare messaggi di solidarietà, li può inviare al e mail: e noi li faremo arrivare direttamente alle lavoratrici e ai lavoratori della Transcom.

Per i terremotati de L'Aquila non serve solo la solidarietà materiale, ma ora, come il 'pane' c'è bisogno anche della solidarietà di lotta e di classe

Lavoratrici Slai cobas per il sindacato di classe – Taranto.
16.6.09

Da una donna sfollata alla redazione di anno zero

Non abbiamo intenzione, noi aquilani, di essere triturati dalla società dello spettacolo: alle menzogne mediatiche opporremo la nostra intelligenza, volontà e coraggio….e la nostra rabbia.
L’Aquila è la mia, la nostra città e non è in vendita, per nessuno!

Cara Redazione,

sono Pina Lauria e sono residente a L’Aquila; attualmente “abito” presso la tendopoli ITALTEL 1, perché alla mia casa, che devo ancora finire di pagare, è stata assegnata la lettera E, che in questo drammatico alfabeto significa “danni gravissimi”.
Scrivo per illustrarvi alcune considerazioni, di carattere generale e, più in particolare, relative alla qualità della vita nei campi.
Intanto, evidenzio la grande confusione che c’è nella città: a quasi due mesi dal terremoto, viviamo ancora uno stato di emergenza. Uno dei grandi nemici di questi giorni, e dei prossimi, è il caldo: arriveranno i condizionatori ma risolveranno ben poco perché, come sicuramente sapete, il condizionatore funziona in una casa, con le pareti di cemento e con le finestre chiuse, non in una tenda, dove il sole batte a picco e da dove si esce e si entra….inoltre, la tenda non è che si chiude ermeticamente!
Allora, il problema vero è questa lunga permanenza nella tendopoli alla quale saremo costretti fino ai primi di novembre. E’ assurdo ed inconcepibile che, per saltare una “fase”, come ha detto il Presidente del Consiglio, bisogna aspettare circa sette mesi per avere una casa, comunque sia. E a novembre, se le cifre rimangono quelle dette dal Governo e dalla Protezione Civile, saranno soltanto 13 mila i cittadini aquilani che potranno lasciare le tende. Su questo vorrei chiarire che si sta assistendo ad un balletto delle cifre che nasconde una amara verità. Mi spiego. Queste cifre si riferiscono alle verifiche finora effettuate ed alle risultanze avute. Si sta ragionando in questi termini: se su un tot di case verificate, è risultata una agibilità pari al 53%, e mantenendo questo trend, allora le case inagibili saranno all’incirca 5.000 per 13 mila persone.
L’agibilità è stata dichiarata per le abitazioni dei paesi vicini a L’Aquila; i quartieri nelle immediate vicinanze del centro storico, a ridosso delle mura (Sant’Anza (il quartiere dove abito), Valle Pretara, Santa Barbara, Pettino, tutti molto popolosi, hanno le case inagibili. Inoltre, bisogna considerare che il centro storico ancora non viene sottoposto ad alcun tipo di verifica perché, a tutt’oggi, è zona rossa. Nel centro storico risiedono circa 12 mila cittadini, senza contare i domiciliati, soprattutto gli studenti fuori sede. Allora, a novembre dovrebbero avere la casa almeno 26.000 cittadini, facendo un calcolo al ribasso perché, considerando anche gli abitanti dei quartieri distrutti, gli immobili da recuperare con interventi molti consistenti e, quindi, con tempi necessariamente lunghi, sicuramente le abitazioni necessarie dovrebbero essere sull’ordine delle 45 mila persone.
Questo è il futuro che ci aspetta e lo tengono nascosto! Ma il Presidente del Consiglio ha detto che, comunque, le tende sono già dotate di impianto di riscaldamento, e quel“già” mi ha molto inquietato.
Non possiamo accettare di restare nelle tende fino a novembre, e sicuramente fino a marzo del 2010!
Questo ragionamento lo stavo facendo alcuni giorni fa al campo: prima con alcune persone, poi si sono avvicinati altri ed eravamo diventati un bel gruppetto: dopo alcuni minuti dal formarsi dell’”assembramento non autorizzato”, sono arrivati i carabinieri, in servizio all’esterno del campo. Ho chiesto se ci fosse qualche problema. Mi hanno risposto che non c’era alcun problema, ma restavano anche loro ad ascoltare. Conclusione: dopo alcuni minuti, tutti ce ne siamo ritornati nelle tende.
Racconto questo episodio, e ne posso citare tanti altri (ad alcuni componenti di vari comitati cittadini, che stavano raccogliendo le firme per il contributo del 100% per la ricostruzione o ristrutturazione della casa, è stato vietato l’accesso nei campi), per denunciare quello che definisco la sospensione dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione: libertà di opinione, di parola, di movimento.
Ora, posso comprendere, anche se non giustificare, un tale comportamento nel primo mese, che secondo me rappresenta la vera fase di emergenza, ma far passare tale logica antidemocratica per 7 mesi, ed anche di più, somiglia più ad un colpo di Stato che ad una “protezione civile”.
Adesso mi trovo per qualche giorno a Bologna, presso mia figlia Mara che sta ultimando un dottorato in Diritto del Lavoro (senza borsa, perché l’Alma Mater non aveva i fondi a sufficienza per finanziare tutte e quattro i posti messi a bando: Mara si è posizionata terza, paga una tassa di iscrizione al dottorato di circa 600 euro l’anno e un affitto di 500 euro mensili, più le spese); proprio questa mattina ho dovuto chiamare il responsabile del mio campo perché la famiglia che abita con me mi ha informato che si stavano effettuando i controlli per assegnare il nuovo tesserino di residente al campo (ne possiedo già uno). Mi ha preso una tale agitazione tanto da sentirmi male: questa procedura che si ripete spesso nei campi, l’esibizione del documento e l’autorizzazione di accesso per gli “esterni”che ti vengono a fare visita, e magari sono i tuoi fratelli, sorelle, madri e padri che hanno trovato sistemazione in altri campi o luoghi, il fatto che adesso, nonostante avessi preventivato di stare un po’ di tempo con mia figlia, debba rientrare per avere di nuovo il tesserino, dietro presentazione di un documento di riconoscimento, anche se sono già tre volte che i responsabili del campo hanno annotato il numero della mia carta di identità, mi scuote in maniera incredibile. Ma la Protezione Civile mi deve proteggere in maniera civile o mi deve trattare come se fossi in un campo di concentramento? Il responsabile del mio campo, quando gli ho parlato questa mattina, mi ha detto che non c’era alcun problema, che potevo tornare quando volevo, riconsegnare il vecchio tesserino e prendere il nuovo, e comunque dovevo comunicare l’allontanamento dal campo, la prossima volta che ciò sarebbe accaduto. Mi chiedo: perché devo comunicare i miei spostamenti? La tenda, adesso, è la mia casa ed ho timore che lo sarà per molto tempo, almeno fino a novembre. Quale è la norma che mi impone di comunicare i miei spostamenti? Se mi si risponde che si è in presenza di una situazione di emergenza, e che tale situazione durerà mesi e mesi, allora siamo veramente in presenza di un pauroso abbassamento del livello di democrazia!
Non sono “vaporosa”, non sono arrabbiata: sono esacerbata!
Ritengo che la nostra città stia diventando non una città da ricostruire, ma una città “laboratorio”, in cui si vuole sperimentare il nuovo modello di società: privo di diritti, passivo, senza bisogni: quello che ti do è frutto della buona volontà dei volontari o dell’imperatore e lo prendi dicendo anche grazie! Mi rifiuto! E si rifiutano i cittadini aquilani! Sui nostri corpi, sulle nostre menti, sulle nostre coscienze, sulle nostre memorie nessuno ha il diritto di mettere le mani!
Un’altra considerazione: le tende dell’emergenza sono tutte di otto posti, per poter accogliere, in tempi molto brevi dopo l’evento catastrofico, il maggior numero di persone. Di conseguenza, ci sono moltissime situazioni di promiscuità (la vivo io stessa, con un’altra famiglia che ha due bambini piccoli). Ritorno sempre alla considerazione di prima: una situazione di promiscuità può essere proposta ed accettata, a causa del disorientamento totale in cui ognuno si trova dopo un evento così terribile, per un mese, ma non per 7 o più mesi!
In alcune tende sono insieme anche tre nuclei familiari! Mi chiedo: non si vogliono utilizzare i containers, ma allora il Presidente del Consiglio, che ha tante bellissime idee (sulle donne, sui giudici, sul Parlamento, sulla Costituzione) perché non pensa a far arrivare tende da quattro? O meglio, perché non riesce a garantire, da subito, una sistemazione dignitosa, senza costringermi ad andare sulla costa o in appartamenti situati nell’ambito della Regione Abruzzo, sicuramente non a L’Aquila, dove vi è la distruzione totale?
Proprio ieri, un gruppo di psicologi ha affermato che tale situazione di promiscuità sta distruggendo le famiglie perché, a parte le discussioni che ci sono, dalle cose più grandi a quelle più piccole (pensate che si sta litigando anche per i condizionatori, quelli che li hanno, perché alcuni li vogliono accesi, i “coinquilini” li vogliono spenti; chi vuole guardare la televisione e chi vuole riposare), la mancanza di intimità e di momenti privati determina nervosismo e sensazione di annullamento di ogni sentimento, senza considerare che nei campi non esiste nessun momento di intimità, né nei bagni, né nelle docce, né a pranzo né a cena.
Non posso restare in silenzio ed accettare passivamente: voglio essere protagonista della mia vita e della ricostruzione della mia città, e non voglio sentirmi come una partecipante del Grande Fratello!
Non abbiamo intenzione, noi aquilani, di essere triturati dalla società dello spettacolo: alle menzogne mediatiche opporremo la nostra intelligenza, volontà e coraggio….e la nostra rabbia.
L’Aquila è la mia, la nostra città e non è in vendita, per nessuno!
Spero che questa mia lettera venga da voi presa in considerazione: sono forte, coraggiosa…come tutti voi e spero che possiate darmi voce.
Vi ringrazio, di cuore…anche se spezzato!
Ciao a tutti

Pina Lauria

venerdì 15 maggio 2009

«Utilizzano i nostri figli morti sotto le macerie a scopo elettoralistico»

Dall'Unità, 28 maggio 2009
di Mariagrazia Gerina

«Mio figlio era uno studente universitario ed è morto sotto le macerie, cosa c’entra questo con la campagna elettorale?», si ribella Paolo Colonna all’idea della cerimonia già apparecchiata per domani mattina. Quando il presidente del Consiglio sarà per l’ennesima volta a l’Aquila per consegnare alle famiglie degli studenti morti sotto le macerie una laurea honoris causa.

Quella onorificenza il signor Paolo Colonna non la vuole. E tanto meno la vorrebbe dalle mani del presidente del Consiglio. «Cosa c’entra? Stanno utilizzando i nostri figli a scopi elettoralistici. Non posso accettarlo. Stiamo parlando di ragazzi di vent’anni morti perché facevano il loro dovere di studenti. Come si fa a utilizzarli per prendere qualche voto in più?», ripete con rabbia il signor Paolo Colonna. Tanto più ora che ha saputo che a quella cerimonia parteciperà anche Berlusconi. Nessuno glielo aveva detto.

All’invito del rettore lui e le famiglie di altri sette studenti morti nel terremoto avevano già risposto di no. Il perché lo spiegano in una lettera al rettore firmata con i nomi dei loro figli. «Quella laurea - scrivono - è solo un blando tentativo di chiudere una tragica parentesi che ha sconvolto la nostra esistenza».

Secondo un rapporto della Protezione civile che risale al 2006 - scrivono Paolo e gli altri genitori degli studenti vittime del terremoto - molti edifici pubblici e tutte le facoltà universitarie avevano gravi problemi strutturali e avevano bisogno di essere ristrutturate. «Quegli studi sono stati fatti nel 2006 e sono rimasti nei cassetti dell’amministrazione», denuncia con rabbia il signor Colonna: «Tutti sapevano, solo noi non sapevamo. Se lo sapevamo i nostri figlio li tenevamo a casa».

Suo figlio, Tonino, studiava ingegneria. Non abitava nella casa dello studente, ma in una delle palazzine di via Luigi Sturzo. Nel fine settimana era stato a casa, dai suoi, a Torre de’ Passeri, un paesino dell'Abruzzo. Ma lunedì mattina aveva lezione presto. Perciò la domenica è tornato e il terremoto l’ha sorpreso a l’Aquila nel suo appartamento di studente.

«Siamo stati noi a tirarli fuori dalle macerie», racconta il padre, che, quando ha cominciato a intuire cosa poteva essere accaduto a l’Aquila è corso da Torre de’ Passeri: «Sul posto c’erano dei ragazzi che scavavano, non c’era la Protezione civile, non c’era nessuno, loro sono arrivati solo diverse ore dopo».

Da quel momento in poi per il signor Colonna è tutto un percorso a ritroso, a cercare le responasbilità, quello che poteva essere fatto e non è stato fatto. Trasportato all’ospedale San Camillo di Roma, Tonino non ce l’ha fatta. «È stato il terremoto ad ucciderli», ha spiegato alla famiglia il preside della facoltà di Ingegneria quando ha chiamato a casa per invitarli alla cerimonia di domani. «Ma i nostri figli sono morti perché facevano il loro dovere di studenti, ma il proprio dovere qualcuno non l’ha fatto», insiste il signor Colonna: «Le scosse erano iniziate a ottobre e il 30 marzo alle tre e mezzo c’era stata una scossa del quarto grado: i ragazzi stavano facendo lezione e sono usciti all’aperto. Perché non hanno deciso allora di chiudere l’università?». «Quando ho chiesto al preside della facoltà di mio figlio se poteva dirmi che i nostri figli andavano a lezione in strutture sicure non mi ha replicato nulla».

Ecco è per questo che ora Paolo e gli altri genitori dei ragazzi morti sotto le macerie come suo figlio non vogliono quella laurea honoris causa. Tanto più ora che hanno saputo che, a una settimana dalle elezioni europee, sarà il presidente del Consiglio a consegnarla personalmente ai presenti. «Vuol dire che moralmente abbiamo proprio toccato il fondo e io non ci sto», dice Paolo, che però se riuscirà, proverà lo stesso domani con le altre famiglie "ribelli" a intervenire per spiegare le sue ragioni anche durante la cerimonia. «So già che non mi faranno entrare, ma se ci saranno anche gli altri ci proverò lo stesso».

Terremoto all'Aquila: i genitori degli studenti vittime rifiutano la laurea honoris causa

Da Abruzzo24ore
Con compostezza e gran dignità i genitori dei ragazzi vittime del crollo della Casa del studente rifiutano la laurea honoris causa che oggi avrebbero dovuto ricevere, in una struggente liturgia ripresa da truppe cammellate di telecamere, per mano del Rettore magnifico e alla presenza nientemeno che del Presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Non sanno che farsene di una pergamena arrotolata grondante di retorica, i genitori di Michele Strazzella, Enza Terzini, Tonino Colonna, Luca Lunari, Marco Alviano, Angela Cruciano, Luciana Capuano, Davide Centofanti.


Loro chiedono solo giustizia, e che chi ha sbagliato paghi e al limite vada in galera il prima possibile.

Peccato per il premier: sarebbe stata una bella botta d'immagine, in giorni in cui viene in mezzo mondo accusato di aver flirtato, lui ultrasettantenne e sposato, con una ragazzina. Un diversivo di marketing politico dopo le dichiarazioni roboanti come l'abbattimento del numero dei parlamentar.

" Va ricordato - spiegano i genitori al quotidiano Il Centro - che durante l’attività sismica che andava avanti da circa sei mesi nessuno si è preoccupato di sospendere la normale attività didattica nelle facoltà, sottoponendo gli studenti ad un notevole stress psicofisico. Alla facoltà di Ingegneria ad esempio», precisano, «erano in programma lezioni ed esami nei giorni di lunedì, martedì e mercoledì della settimana di Pasqua. La prevenzione è stranamente scattata dopo i catastrofici eventi sismici del 6 aprile, visto che molte facoltà sono state trasferite in alcune città abruzzesi. Basta solo questo per ribadire che noi rifiutiamo l’assegnazione del titolo di laurea.

Intanto il Comitato familiari vittime Casa dello studente si dice intanto sconcertato dalle dichiarazioni dell'ex presidente Adsu Luca D'Innocenzo, rese alla stampa a margine del suo interrogatorio in Procura, e chiede a gran voce le sue dimissioni anche da assessore comunale con delega all'Università.

Il 31 marzo, spiegano i genitori, D'Innocenzo asserisce di aver consegnato agli studenti un questionario nel quale si chiedeva agli stessi se ritenessero sicura la sede, come se fosse una questione di impressioni soggettive. D'Innocenzo, incalzano, sapeva delle crepe e della colonna fradicia che troneggiava in sala mensa, al contrario di quanto ha detto ai giudici. Sapeva dello studio di Collabora Engineering, sui rischi di criticità degli edifici pubblici, tra cui la casa dello studente, perchè fu l'Adsu a consegnare la cartografia dell’immobile. Soprattutto non ha mosso un dito per far uscire gli studenti da quella casa di cartapesta, nonostante avvertimenti degli stessi studenti, e tre mesi di scosse sismiche.

Concludono i genitori: "Può un dirigente che non sa, non vede, non sente, rappresentare i cittadini attraverso uno degli assessorati più impegnativi e delicati, le politiche sociali, con, ironia della sorte, delega alla Città degli Universitari?"

NEL VIDEO DICHIARAZIONE DI ANTONIETTA CENTOFANTI, COMITATO VITTIME CASA DELLO STUDENTE


giovedì 14 maggio 2009

Diario dall'Abruzzo

ANCORA DALL'INFERNO DELLE TENDOPOLI

Freddo di notte, caldo di giorno, un caldo sfibrante, soprattutto per i 120 sfollati di Colle Sassa, rimasti senza acqua, senza poter bere e lavarsi per 2 giorni, fino a quando non hanno protestato e minacciato querele.
Freddo di notte, caldo di giorno. Nelle cuccette e nelle tende alla mattina non si può più stare: manca l'aria e il termometro sale ad oltre 30°. Il microclima, il sovraffollamento, le scarse condizioni igieniche e i tardivi controlli sugli alimenti e la gestione della cucina nei campi favoriscono la diffusione di malattie infettive e parassitarie. 50 casi di gastroenterite nel solo campo di piazza d'armi in un solo giorno e i malati vengono tenuti in isolamento nelle tende. Un caso accertato di tubercolosi nel campo di Pizzoli, ma le prime notizie apparse su televideo parlavano di 5 malati di tubercolosi all'Aquila. Di una cosa sicuramente siamo tutti malati, la disinformazione.
La protezione civile promette condizionatori e doppi teli per proteggersi dal sole, ma intanto si aspettano ancora lavabi in prossimità dei cessi chimici e i medici asseriscono che: "per prendere una diarrea basta aprire la porta del bagno chimico e poi non lavarsi le mani". Sapete cosa ha risposto la protezione civile ad uno sfollato disoccupato che chiedeva teli frangisole e frigoriferi per il campo? "Vedi di farteli regalare da qualcuno, noi non ne abbiamo!"
Fa caldo, troppo caldo nelle tende, i bambini, gli anziani, i malati costretti all'isolamento non riusciranno a superare l'estate e l'ospedale da campo non è in grado di fronteggiare l'emergenza. Nonostante i climatizzatori, nelle tende dell'ospedale la temperatura supera i 30° e i ricoverati, di cui una trentina di anziani allettati nelle tende di medicina interna, aspettano i rifornimenti di integratori salini contro il caldo. Per andare al bagno, chi può alzarsi dal letto deve uscire dalla tenda per raggiungere i cessi chimici e durante il percorso rischia di inciampare in un'altra minaccia, le vipere. Ma non è tutto: dal 20 maggio, per una settimana, sono sospesi gli esami per i pazienti ambulatoriali e ricoverati per liberare le aree dove verrà montato l'ospedale da campo del G8.
Questo maledetto G8, che già da ora rende ancora più invivibile, con la sua invadenza militare e finanziaria le condizioni degli sfollati aquilani. Un G8 che sottrae e sottrarrà alla rinascita della città risorse urbanistiche ed economiche preziose. L'ennesima beffa e provocazione a danno dei terremotati abruzzesi. Un G8 per il quale verranno sperperati 90 milioni di euro di denaro pubblico per stendere un tappeto rosso sotto i piedi degli 8 potenti della terra (sotto i piedi dei terremotati abruzzesi solo scosse e vipere), un G8 per il quale il governo si sta adoperando in tutta fretta per mettere in sicurezza da eventuali contestazioni gli 8 potenti della terra, nella roccaforte blindata e antisismica della caserma ''Vincenzo Giudice'' (che potrebbe ospitare già da adesso 25.000 sfollati, o in alternativa la sede dell'università dell'Aquila), un G8 per il quale verranno sottratti agli sfollati altri 900mila euro per l'adeguamento dell'aeroporto di Preturo alle esigenze di mobilità e sicurezza degli 8 potenti della terra (alle proprie esigenze di sicurezza e di mobilità gli sfollati devono pensare da soli, senza intralciare le forze del disordine a difesa del G8 e della più alta concentrazione in Italia di depositi bancari, quale era l'Aquila sicuramente già prima del sisma del 6 aprile), un G8 per il quale già da ora il diritto alla mobilità, alla salute, al lavoro, alla casa, alla sicurezza dei terremotati abruzzesi passa in secondo piano rispetto ai privilegi e all'arroganza dei potenti e dei governi.
Dal 6 aprile non abbiamo più diritto all'autogoverno, non abbiamo più diritti. I malati vengono spediti fuori dall'Abruzzo per essere curati e il personale medico, così come anche quello dell'università, se può abbandona il territorio. Qui non c'è più lavoro per gli aquilani, qui non c'è più neanche l'assistenza sanitaria minima, garantita prima del terremoto.
Gli operai comunali sono a braccia conserte e la breccia delle cave abruzzesi per i campi e per il G8 viene prelevata da ditte provenienti da Milano o Torino perché, dicono, le cave non sono sicure, come se le ditte di Milano o Torino conoscessero il territorio abruzzese meglio di chi ci vive da sempre.
La disoccupazione nel territorio aquilano, già molto elevata prima del terremoto, ora ha raggiunto livelli insopportabili per un tessuto sociale così profondamente diviso e sparpagliato tra un presente di tendopoli e alberghi-ghetto e un futuro di new town. L'Aquila nacque dall'unione di 99 villaggi, che strinsero un patto per fuggire alle vessazioni dei baroni feudali e garantire a tutti stessi diritti civici e uso delle proprietà collettive, come boschi e pascoli. Ora questi campi, le future new town, riporteranno indietro l'orologio di questa città di almeno 8 secoli.
Fa caldo, troppo caldo nelle tendopoli e si muore di noia. Chi prima aveva un lavoro, seppur precario, ora non lo ha più e migliaia di famiglie non hanno più neanche un reddito su cui contare.
Né il governo centrale, né le amministrazioni locali si sono concretamente impegnati a far ripartire l'economia del territorio, privilegiando evidentemente speculazioni di interesse politico ed economico a discapito del tessuto umano.
I prodotti locali dell'agricoltura e dell'allevamento, inutilmente offerti alla protezione civile per il consumo nei campi, rimangono invenduti e devono essere distrutti. Sono le grosse catene di distribuzione e non i piccoli produttori indigeni a guadagnare dall'emergenza. Nelle tendopoli gli sfollati non hanno certo diritto di scelta e, mentre nelle stalle abruzzesi i vitelli invecchiano e il latte deve essere gettato, nei campi la minestra è sempre quella del cibo in scatola o surgelato, di dubbia provenienza e inesistente genuinità, probabile concausa della recente epidemia di dissenteria.
I lavoratori aquilani sono costretti ad emigrare per trovare un lavoro, anche perché di fatto, gli enti locali sono stati commissariati. La popolazione, con il decreto 39 e relative ordinanze viene espropriata di ogni potere decisionale in merito al proprio destino, sia per quanto riguarda la fase dell'emergenza (impossibilità di autogestione nei campi della protezione civile e blocco degli aiuti da parte della stessa nei confronti dei campi autogestiti) sia per quanto riguarda quella della ricostruzione, per la quale il suddetto decreto, invece di privilegiare i lavoratori del posto, promette una giungla di subappalti ad imprese a partecipazione mafiosa e massonica, provenienti da altre zone d'Italia.
Non siamo un popolo di accattoni, vogliamo solo quel che ci spetta: il lavoro e la terra per ricominciare a sognare, per ricostruire le nostre case, per vivere con dignità, come abbiamo sempre fatto. Ma qui ci impediscono di lavorare e si prendono la terra e presto si prenderanno anche tutte le nostre macerie, la nostra storia, i nostri ricordi, le prove della loro colpevolezza oltre che della nostra vita.
Si prendono tutto il nostro tempo: il tempo che ci vuole per aprire e chiudere una tenda della protezione civile ogni volta che si entra e che si esce (stimato in media di 20'), il tempo che ci vuole (ore, giorni o addirittura mesi senza risultati tangibili) per cercare di avere notizie o documenti dall'infernale macchina del DICOMAC (DIrezione di COMAndo e Controllo, l'organo di Coordinamento Nazionale delle strutture di Protezione Civile nell'area colpita) e di quel che è rimasto degli sportelli comunali, il tempo che ci vuole per cercare di chiamare, a un numero verde sempre occupato, un autobus per potersi spostare (ore e a volte giorni), il tempo che ci vuole per gli sfollati nella costa per aspettare un autobus che non arriverà mai. L'Aquila è ormai una città assediata dalla burocrazia e dalla militarizzazione, blindatissima per il G8 ed ermetica alle concrete esigenze degli aquilani. Senza notizie e informazioni gli sfollati sono costretti a file sfibranti solo per lasciare il documento al maresciallo di turno ed uscire insoddisfatti e sfiniti, pronti per un'altra fila presso un altro com o un altro ufficio.
Fa caldo, troppo caldo nelle tende e nelle file laceranti fuori dai COM e fuori dalle mense, dalle docce, dalle tende con gli aiuti. Il tempo, scandito dalle esigenze di profitto dall'emergenza e non da quelle della ricostruzione del tessuto sociale, la convivenza forzata, la perdita totale di ogni frammento di intimità e di identità collettiva nei luoghi e nei tempi controllati dal disordine della protezione civile ed associazioni da essa accreditate, l'ozio forzato cui sono costretti gli sfollati cominciano a prendere forma nelle risse, nelle violenze alle donne e nella guerra tra poveri. E mentre i carabinieri e i media minimizzano, per evitare che questa rabbia gli si rivolga contro il generale Bertolaso chiede aiuto all'arcivescovo e ai preti: "la gente nelle tendopoli comincia a rumoreggiare, tocca anche ai sacerdoti veicolare messaggi distensivi per evitare rivolte popolari". Naturalmente in una situazione così "surriscaldata" l'appello ai parroci potrebbe non essere sufficiente e così il controllo governativo dei campi profughi si capillarizza in chiave autoritaria, oltre che con la militarizzazione dei campi stessi, anche con la gerarchizzazione delle persone ivi ospitate. Nelle tendopoli le uniche assemblee popolari consentite e incoraggiante, quando non direttamente indette dal capo-campo della protezione civile, come è successo a piazza d'armi, sono quelle per simulare la libera elezione dei responsabili civili per la sicurezza, ossia i kapò. Un kapò per ogni etnia per meglio controllare ogni comunità, praticamente scelto dal capo-campo in cambio di condizioni privilegiate nella tendopoli stessa. Altro che Stato di diritto e di democrazia! I campi sono blindati: vietato introdurvi volantini e macchine fotografiche, vietato importare ed esportare informazione e democrazia. Eppure a piazza d'armi c'è un presidio fisso della rai che non trasmette nulla di ciò che accade lì, ad eccezione delle passerelle degli sciacalli politico-istituzionali. Oltre quei cancelli e quei recinti, solerti funzionari della digos e della polizia in borghese vigilano affinché la gente rimanga ignorante, vigilano affinché tra le maglie di quelle reti non passi neanche un filo di libertà, di partecipazione.
Ma noi dobbiamo resistere, abbiamo il diritto-dovere di resistere, di partecipare al nostro presente e di essere protagonisti del nostro futuro. Vogliono fare il G8 all'Aquila? Noi abbiamo il diritto-dovere di guastargli la festa prima che la festa la facciano a noi. D'altronde se per luglio ci saranno ancora macerie le pietre non mancheranno!

NO AI CAMPI-LAGER!
NO AGLI ALBERGHI-GHETTO!
NO AL G8!

Per una rete di soccorso popolare
mumiafree@inventati.org

venerdì 1 maggio 2009

Solidarietà

Cari-e compagni-e [...], ho appena finito di leggere cio’ che avete scritto su informa-azione e sono sensibilmente toccato da come state vivendo, no che mi immaginassi una situazione semplice dove trascorrere la propria quotidianeta’ ma mai mi sarei immaginato che si potesse arrivare a tanto. Non riesco a capire, perche’ tutti quegli sbirri e perche’ tutti quei controlli. Sono davvero esterrefatto, anche se vi posso dire di non essere cosi’ coglione da non capire che ci sono interessi primari quali la ricostruzione e il cercare un po’ come fossero delle prove generali, chissa’ per un futuro, su come mettere a tacere un popolo intero in questo caso quello abruzzese. Il controllo che stanno attuando nei vostri confronti da l’idea di come si possa vivere in una situazione di emergenza sotto controllo poliziesco. Dal mio punto di vista non vogliono darvi la possibilita’ di incontrarvi, discutere per paura che escano fuori le vere responsabilita’ su cio’ che si poteva evitare e chi ancora oggi continua a giocare sulle vostre e nostre vite. Come e’ stato messo a tacere il sismologo che ha denunciato e che aveva previsto che sarebbe arrivato un sisma piu’ potente di quelli precedenti, o come quegli abitanti abruzzesi che hanno denunciato la protezione civile per incompetenza censurati su you-tube.
Penso che l’apice l’hanno toccato indicendo l’incontro del G8 all’Aquila e dal mio punto di vista fate bene a sottolineare l'esigenza di creare qualcosa li’ da voi, io penso che potrebbe essere l’occasione buona per dire a berlusconi e i suoi scagnozzi di governo, da parte nostra, cioe’ chi e’ davvero solidale coi cittadini abruzzesi con quelli che alzano la testa, che non vi lasciamo soli con la protezione civile e con i media che fanno di tutto per appoggiare ogni piano megalomane del cavalier berlusconi, e per voi che avete vissuto e che state vivendo quest’esperienza allucinante che e’ ora di dire basta.
Io sono con voi, di andare a fare teatrini in giro per l’italia non mi va ma se vorrete assieme, come me tanti-e altri-e compagni-e e non sarebbero pronti ad appoggiarvi e darvi una mano concreta. Un abbraccio solidale e se avete bisogno di qualcosa fatelo sapere io e altri siamo disponibili per darvi una mano anche nel piccolo.
Un ultima cosa se siete d’accordo lo scritto vostro lo farei circolare il piu’ possibile.
Saluti libertari. Aspetto una vostra risposta

Carlo